Intervista Bonaccorso

L’intervista a distanza fu concessa alla giornalista Maddalena Bonaccorso nel 2005. Il testo è rimasto inedito perché era solo una base preparatoria per la sua recensione a Nero Istanbul pubblicata sulla rivista Thriller Magazine. Ritengo tuttavia che leggere l’intervista possa essere interessante per chi voglia seguire alcuni percorsi mentali e culturali che seguii nella scrittura di Nero Istanbul e che provai a ricostruire rispondendo alle domande della giornalista.
Ringrazio Maddalena Bonaccorso per il permesso alla pubblicazione.

Perché proprio un noir dopo libri così diversi?

Io desidero essere letto dal grande pubblico. Mi sembra che le storie che ruotano attorno ai delitti siano interessanti per molti lettori. Il giallo, però, inteso come quel tipo di storia in cui un investigatore mostra la sua intelligenza nello scoprire l’assassino, non m’interessa molto. Così, qualche anno fa ho provato ad avvicinarmi al noir e in particolare ai libri di James Ellroy. Il noir mi è più congeniale del giallo, perché non ci sono personaggi che investigano il crimine protetti dalla loro intelligenza. Tutti sono in pericolo, tutti hanno un lato debole che prima o poi nella vicenda viene scoperto e colpito. Insomma, nel noir si può vedere l’essenza dell’uomo. Non è detto che si veda necessariamente. Per esempio secondo me nelle storie con i serial killer non si va abbastanza a fondo nell’analisi del cuore umano (che è il mio interesse di lettore e la mia ambizione di scrittore). Ci si accontenta di raccontare le gesta di un mostro raccapricciante spingendosi con la fantasia fino ai confini stessi del raccapriccio. In questo modo, invece di scandagliare a fondo dentro noi stessi, entriamo in un mondo di favola, dove il serial killer gioca il ruolo dell’uomo nero. Se invece leggiamo la cronaca nera, troviamo notizie veramente inquietanti, perché i delitti compiuti dal serial killer sono pochi, mentre quelli compiuti all’interno della famiglia o da conoscenti sono tantissimi. E così veniamo al punto che unisce i miei due precedenti romanzi (Brenda e Plotino, del 1998, Se mi chiami Amore, del 2001) e Nero Istanbul (2005): tutti e tre hanno al centro i legami familiari, i rapporti tra uomo e donna. Il mio noir è il racconto di una crisi familiare che esplora i territori del delitto. Direi perciò che una storia veramente inquietante, perché tratta di un male molto grande, ma che è alla portata di tutti. È una storia che mette davanti ai lettori uno specchio in cui riflettersi, non regala un’immagine favolosa in cui il male è così irreale da risultare anestetizzante. Forse questo è un limite per uno scrittore che ambisce al successo, me ne rendo conto. Il genere noir peròmi interessa, oltre che per l’attrattiva che ha sul pubblico, anche per le sue grandi potenzialità artistiche. James M. Cain, per esempio, scriveva noir ed era uno straordinario scrittore (senza ulteriori aggettivi). Io provengo da studi di italianistica, e vorrei aggiungere che, in una certa misura, mi ha portato a esplorare il genere noir anche una certa tradizione novellistica italiana. Penso a Giovan Battista Giraldi Cinthio (XVI sec.) che con una novella degli Ecatommithi (VIII, 5) ispirò Measure for measure di Shakespeare, o a Masuccio Salernitano (XV sec.), che fu un maestro della novella nera: la storia dei due giovani amanti (Novellino, XXXI) che fuggono insieme, ma a causa del temporale trovano rifugio in un lazzaretto di lebbrosi che uccidono lui e cercano di violentare lei (ma lei riesce a uccidersi prima), non ha niente da invidiare a Lansdale! Insomma, desidero andare incontro al pubblico, ma vorrei che anche il pubblico mi venisse incontro. Vediamoci a metà strada, su.

Dal libro emerge un grande amore per la città di Istanbul. Cosa ha rappresentato per Lei?

Mille cose. È stato un concentrato di esperienze, un banco di prova sia dal punto di vista professionale (insegno), sia dal punto di vista umano. La letteratura vive di conflitti e Istanbul offre un campionario straordinario di conflitti: il substrato romano-bizantino contro il superstrato ottomano, la tradizione ottomana contro la rivoluzione di Atatürk, l’integralismo islamico contro la modernizzazione, alevi contro sunniti, la ricchezza contro la povertà, la rozzezza contro la raffinatezza, l’immigrazione contadina contro la civiltà cittadina, il nazionalismo turco contro le varie identità sottostanti (tra le quali i curdi, gli armeni, i laz), la cultura nomade (di cui i tappeti sono le bandiere) contro quella stanziale. Smetto per non annoiare, ma l’elenco non è finito. Insomma, per uno scrittore, Istanbul è una fonte infinita di ispirazione. E per uno scrittore italiano c’è anche il conflitto tra Occidente e Oriente (in termini di storia nostrana, potremmo dire tra Genova o Venezia e il Levante). Verso Istanbul convergono da millenni i destini di molti popoli perché è una città geograficamente strategica e bellissima, costruita sulla confluenza tra Bosforo, Mar di Marmara e Corno d’Oro. Ha insomma un fascino che nasce dalla conformazione geografica e contamina la storia, l’architettura, la musica, la cucina e anche i sentimenti. Molti uomini ne sono stati attratti e io non faccio eccezione.

Il personaggio di Franco, riuscitissimo; cosa c’è di Lei?

Sono felice che Franco Benvenuti Le sembri un personaggio riuscito. Io non credo che una buona storia sia uno scheletro solido da rimpolpare con una serie di caratteri umani, ma che al contrario si sviluppi a partire dai personaggi e dal loro conflitto. Dunque sono loro al centro della narrazione. Non è facile dire come nascono o come si costruiscono. Forse la risposta è nell’inizio di Pinocchio: l’autore comincia ad abbozzare una figura che poi prende vita da sola, meravigliando l’autore per primo. Ogni personaggio è la ripetizione di almeno un paio di archetipi mescolati tra loro e forse anche ogni essere umano in carne e ossa lo è. L’infinita varietà delle mescolanze garantisce l’originalità di ciascuno e al tempo stesso ci rende tutti in qualche modo riconoscibili e confrontabili. Ovviamente, la materia grezza da cui attingo per creare, più o meno coscientemente, i miei personaggi, sono io stesso. Di conseguenza, c’è un po’ di me in tutti i miei personaggi e io sono tutti i miei personaggi. Detto questo, i tratti di Franco che ritrovo in me stesso sono l’età (circa 40 anni), il complesso di superiorità che ogni tanto prende il sopravvento, e il desiderio di paternità. C’è anche una sfumatura di autocommiserazione, che è il contrappeso inevitabile del sentirsi superiori.

Perché ha voluto rappresentarlo così “fuori”, dagli schemi, dalla società, così sprezzante?

Per fornire alla storia il fuoco che la alimentasse dall’inizio alla fine. Mi spiego meglio. Senza conflitto, una vicenda langue, anzi non nasce neanche. Volendo scrivere un romanzo in cui far confluire le esperienze emotive che ho vissuto nei miei tre anni passati a Istanbul, la scelta è caduta sul genere noir, che mi è sembrato il più adatto a rendere l’atmosfera di mistero e di esotismo che, agli occhi di uno straniero, la avvolge (parlo in generale, perché per me Istanbul è anche e soprattutto una città di autobus, di supermercati, di file in banca o alla posta, insomma: una città come cento altre, pur con un fascino straordinario). Dopo tre anni di permanenza, sono arrivato a conoscerla in modo abbastanza approfondito, ma non tanto da diventarne un abitante che si confonde con il paesaggio. Non parlavo correttamente il turco, ad esempio, e frequentavo altri stranieri come me (molti ovviamente italiani, insieme ai quali ricreavo un’atmosfera da paesello italico, sì multidialettale e classista, ma in fondo piuttosto omogeneo), o turchi che conoscevano l’inglese o addirittura l’italiano. A questo punto, l’unica figura che potevo mettere al centro del romanzo mi è sembrata quella del turista, perché potevo descriverne le reazioni nei confronti di Istanbul in modo sincero, mentre non mi potevo permettere di tratteggiare un protagonista turco che vede la città con occhi che io non potrò mai avere. Dunque, un turista italiano. Abbastanza colto e intelligente (o presunto tale) da poter reggere il ruolo principale della storia. Molti turisti colti e intelligenti scelgono però di viaggiare da soli, o al massimo in famiglia. Questo avrebbe ridotto troppo la possibilità di contatti tra personaggio principale e mondo esterno. Di qui la scelta di far viaggiare Franco insieme a un gruppo. In questo modo si poteva creare un conflitto tra il protagonista e gli altri membri del gruppo, basato appunto sul senso di superiorità che Franco prova rispetto a chi visita il mondo con i viaggi organizzati. Il lettore penso che si chieda come si permetta Franco di sentirsi superiore pur partecipando a un viaggio organizzato. Ci deve essere qualcosa sotto. E infatti c’è. Insomma, il fatto che Franco sia “fuori” da molte cose è il suo grande limite, ma anche la caratteristica che forse lo rende simpatico (non siamo tutti noi italiani alla ricerca di cose, esperienze e riviste “esclusive” perché odiamo confonderci con la massa, salvo poi dover amaramente riscontrare che stiamo facendo esattamente quello che fanno tutti gli altri? Per esempio, ascoltare tutti il nostro “esclusivo” stereo sulla nostra auto “esclusiva” mentre siamo in fila come tanti Fantozzi davanti al casello durante una delle tante “partenze intelligenti” per le vacanze). Ecco, mi accorgo che questa frase tra parentesi l’avrebbe potuta benissimo scrivere Franco. E va bene, c’è molto di Franco in me e molto di me in Franco. Ma non ci stimiamo quasi per niente. E comunque un tratto del carattere in un personaggio letterario può avere più di un’origine. L’aria sprezzante di Franco la potrei ricollegare per esempio a qualcosa che, vivendo a Istanbul, notavo verso aprile o maggio, cioè quando la città si riempiva di turisti europei. Mi stupiva rilevare che mi era possibile individuare con bassa percentuale di errore un italiano (la provenienza da nord o da sud è irrilevante, con buona pace di chi crede al valore mistico delle differenze regionali) dal suo modo particolare di incedere a testa alta, con una curiosità viva, venata però di diffidenza e un pizzico di commiserazione per lo spazio urbano che stava visitando. I commercianti del gran bazar, invece, vedevo che giudicavano se uno straniero era italiano dalle scarpe. I turchi sono appassionati di scarpe e ci riconoscono nel settore un gusto superiore. Anche questo sistema è buono, ma ho notato che analizzando le calzature cresceva la possibilità di confondere un italiano con un spagnolo. Insomma, Franco rappresenta a mio avviso un tipo di italiano piuttosto tipico. Anche ciò che gli capita nel corso del romanzo è tipicamente italiano e contemporaneo, solo che è esasperato e portato alle estreme conseguenze, come detta la logica narrativa del noir.

Emerge un enorme pessimismo dal libro; soprattutto riguardante la società contemporanea, l’assenza di scrupoli. E tuttavia rimane un senso di speranza, soprattutto nelle parti dedicate ai bambini e alla popolazione locale…

Io sono una persona ottimista nella mia vita privata, ma quando scrivo divento pessimista. È difficile spiegare il motivo di questa contraddizione, perché è un meccanismo che non posso controllare. Le storie che racconto mi prendono la mano e spesso la loro direzione volge al nero. In genere mi rassegno con fatalità al pessimismo delle mie storie, perché mi sembra che sgorghi dalla sorgente stessa che me le ha ispirate. Nei primi due romanzi l’ho controbilanciato con l’ironia. Nel terzo l’ironia c’è ancora, perché non la inserisco a freddo, per forza di calcolo, ma mi si impone nell’atto della scrittura come una forza autonoma, che è parte integrante del mio carattere personale. Tuttavia nella storia di Franco e Ornella l’ironia direi che è inacidita, si è fatta sarcasmo. Il complesso di superiorità che affligge Franco viene demolito senza pietà nello sviluppo della storia. Se andiamo al cuore della questione, si tratta di una vicenda tragica e il pessimismo è l’unico atteggiamento adatto con cui uno scrittore può affrontare la tragedia. Capisco che il tragico è quanto di più lontano ci sia dal “carattere degli italiani”, ma ritengo che le tinte fosche di un noir siano un elemento che aiuta a considerare la realtà contemporanea. E dico questo proprio perché sono un ottimista. Credo nel miglioramento delle cose, ma non mi faccio illusioni: per migliorarle bisogna conoscere come stanno veramente. Che la mancanza di scrupoli sia un vizio diffuso nel mondo è innegabile. Che l’Occidente guardi dall’alto verso il basso l’Oriente, anche. Così come è innegabile, scendendo nel particolare, che la crescita demografica in Italia è bassa e in Turchia è alta. L’italiano è mediamente ricco e impaurito. Sa che è al culmine della sua ricchezza e vede davanti a sé uno scenario inquietante: lavori a tempo determinato, niente pensione, giochi finanziari che arricchiscono i pochi e rovinano i molti. Pur sotto l’eterno velo della commedia, siamo disperati e non ci viene molta voglia di mettere al mondo dei bambini. Questo insieme di riflessioni mi sembra plausibile. Di sicuro non è un quadro esauriente, ma mi è sembrato significativo e così l’ho usato come base per costruire la storia di Franco e Ornella. Quello che sarebbe improponibile in un saggio, può diventare materia di romanzo e così stimolare ulteriormente la riflessione del lettore. Infine, circa i bambini e la popolazione turca in genere, Lei ha colto bene i sentimenti del protagonista. Con gli occhi dell’occidentale gli è sembrato di vedere nella gente di Istanbul una cortesia, una spontaneità e una capacità di resistere in condizioni di vita mediamente abbastanza difficili: tutte qualità che in Italia sono un po’ in ribasso. Non sono un sociologo e quello che ho detto ora ha un valore puramente sentimentale. Non nascondo che in parte le riflessioni di Franco siano anche le mie. Nero Istanbul è scritto infatti da un punto di vista particolare, che chiamerei “falsa terza persona”. Scrivo sempre “Franco pensò che”, “Ornella disse che” come in un romanzo narrato in terza persona, ma in realtà seguo sempre e soltanto il punto di vista di Franco. Insomma, dietro la “falsa terza persona” si nasconde una “prima persona”. In questo modo posso essere al tempo stesso dentro e fuori il personaggio che descrivo. Questa è la mia condizione. Come Franco ho visto nei bambini turchi poveri che giocano insieme per certe strade di Istanbul un’allegria e una spensieratezza irraggiungibili per chi gioca a Roma da solo con un videogioco chiuso in casa, e dunque ho sentito in loro una forza vitale molto maggiore, quella forza che spinge l’umanità verso il futuro (e dico “in certe strade”, perché in altre la situazione è quella di un qualunque quartiere ricco di una città italiana). Al tempo stesso, sono cosciente del mio orientalismo (ne farei volentieri a meno, ma penso che nessun occidentale possa vedere l’Oriente se non con gli occhi di un occidentale) e non desidero identificarmi nel mio personaggio, che crede di essere un uomo originale e invece ragiona per clichès, come tutti. Il pregiudizio positivo verso i “poveri ma belli” in fondo è uguale a quello per cui Tacito descrive i Germani come gente fiera e non corrotta dalle mollezze della Roma imperiale. Duemila anni dopo, mi sembra che noi italiani guardiamo ai turchi con lo stesso miscuglio di disprezzo e di timore. I clichès e i pregiudizi sono veramente duri a morire. Più probabilmente, non muoiono mai (e ciò ovviamente vale anche per i pregiudizi degli orientali nei nostri confronti, perché in ultima analisi tutti gli esseri umani si assomigliano). So che potrei essere tacciato di pessimismo per questa affermazione. Rispondo che è solo un tentativo di capire il gioco delle forze che sono in campo. Anche se il fine è semplicemente quello di scrivere un romanzo decente, la realtà va conosciuta il più esattamente possibile, anche e soprattutto nei suoi risvolti psicologici.

Vorrei aggiungere qualcosa sul pessimismo di Nero Istanbul. La catastrofe a cui vanno incontro Franco e sua moglie Ornella ha un effetto catartico, secondo me. Tuttavia ha lasciato a me per primo un senso di dispiacere molto forte. Più precisamente, un’insoddisfazione. Alla fine, ho sentito che la storia non poteva concludersi così. Di uno dei personaggi che rimangono in vita mi sono chiesto: “Che fine ha fatto? Come se la può cavare adesso?”. Così ho deciso di far diventare questo personaggio secondario di Nero Istanbul (un dottore) il protagonista di un secondo noir il cui scopo è proprio quello di controbilanciare il pessimismo del primo. Parlo di questi due romanzi come se fossero due progetti architettonici. Ho appena finito di scrivere questo seguito “ottimista” di Nero Istanbul e devo dire che ho tenacemente combattuto contro la tendenza a farmi di nuovo travolgere dal pessimismo. Non voglio neanche dire se ci sono riuscito oppure no, perché l’atmosfera è ancora una volta decisamente noir, ma nel progetto c’era molto ottimismo. Di sicuro posso dire che il dottore è un personaggio diametralmente opposto a Franco e dunque la trama segue il carattere del nuovo protagonista. Si tratta di una vicenda che non ha ancora smesso di ossessionarmi, in verità. Tant’è che ho in animo di scrivere un terzo romanzo noir, cioè il seguito del seguito di Nero Istanbul.

Per finire, vorrei aggiungere una riflessione sulla donna nel noir. Mi è stato fatto notare che Ornella, la moglie di Franco, è personaggio spietato, di vertiginosa cattiveria. Ho provato a difendermi dicendo che nei miei primi due romanzi ci sono personaggi femminili molto positivi (citerei almeno la Brenda di Brenda e Plotino e la Beatrice di Se mi chiami Amore). Mi viene però in soccorso un libro molto interessante di Luigi Forlai e Augusto Bruni, Detective, thriller e noir. Teorie e tecniche della narrazione (Dino Audino editore, Roma, 2003) dove si sostiene che la specificità del noir rispetto al thriller è proprio la figura della “donna fatale” che porta alla rovina il protagonista. Insomma, Ornella fa semplicemente il suo lavoro all’interno della storia. E i modelli possono venire da molto lontano: non solo, per esempio, la Phyllis di La morte paga doppio (La fiamma del peccato) del citato James M. Cain o la Catherine Tramel di Basic Instinct, ma anche le donne furbe, fedifraghe e perverse della novellistica medievale italiana (per tacere di Medea e di altre figure del mito greco). Al fondo c’è l’attrazione dell’uomo per la donna e al tempo stesso la paura (la donna, come i germani o i turchi, è un’immagine dell’Altro): ciò che ci attrae, ci spaventa proprio per la forza misteriosa con cui ci attrae. Direi perciò che il noir ha sicuramente un futuro perché ha una lunga storia.