Il testo che qui viene riportato fu scritto in amicizia da Salvatore De Mola nel 2005 per una presentazione di Nero Istanbul che fu ospitata da Giuseppe Piccioni nella sua bella Libreria del cinema a Trastevere. Da Salvatore ho appreso molto in campo letterario e cinematografico (senza alcuna sua responsabilità circa il modo in cui ho tradotto nella mia scrittura ciò che avevo appreso, si capisce). Sono onorato di questa presentazione, che è rimasta per anni nascosta in un file informatico ed è molto più articolata di quella che venne effettivamente detta quella sera. Le recensioni possono stroncare, possono fare male, ma essere sincere. A una presentazione scritta in amicizia bisogna fare la tara. Al netto dell’amicizia e degli elogi fatti per non guastare il rapporto, il testo di Salvatore De Mola mi sembra oggi sincero quasi come una recensione negativa, perché il rigore e la dignità intellettuale del suo autore si intravedono distintamente sotto la trama delle carezze. Giudichi il lettore se anche a questa frase bisogna fare la tara.
Su Nero Istanbul di Fabio De Propris, amico mio
di Salvatore De Mola (marzo 2005)
Intanto vorrei sgombrare il campo da possibili fraintendimenti. Di solito, quando si fanno questo tipo di presentazioni, chi si accolla l’onore e l’onere di presentare il libro finge di essere disinteressato, di aver apprezzato il libro a prescindere dall’autore, che magari nemmeno conosce. Ecco, non è questo il caso. Io l’autore non solo lo conosco, ma lo ritengo uno dei miei più cari amici. Ed è per questo che nelle poche cose che dirò sarò spudoratamente parziale. Anche fazioso, se serve.
Fabio lo conosco da anni, almeno dodici, se non sbaglio. Da una sceneggiatura che abbiamo provato a scrivere insieme a Francesco Bruni e a Gianfranco Pannone. Una sceneggiatura che non è diventata un film, come spesso accade. Nonostante questo, o forse proprio a causa di questo, io e Fabio siamo rimasti amici, e abbiamo scoperto di avere molte cose in comune. Ricordo un lungo ma piacevolissimo viaggio in macchina da Bari a Roma, in cui ci confrontammo su quasi tutto lo scibile umano, dal calcio alle donne passando per la letteratura inglese dell’ottocento e il cinema e la narrativa di genere.
E qui veniamo al problema che mi sono posto leggendo il libro di Fabio.
Che è un libro strano, per me che conosco il percorso di Fabio come narratore, visto che ci siamo conosciuti quando lui stava forse concependo Brenda e Plotino, il suo primo romanzo. Un romanzo molto delicato, pieno di attenzione nei confronti dei suoi personaggi. Già il secondo romanzo m’aveva colpito, perché in Se mi chiami Amore Fabio ha provato, con successo almeno secondo me, a sperimentare una forma narrativa anomala e impegnativa all’interno di una tradizione consolidata e apparentemente “non modificabile”, come la storia d’amore, anzi, “la” storia d’amore, quella fra Dante e Beatrice. Chi ha letto il libro sa di che cosa parlo, chi non l’ha letto è colpevole e quindi dovrebbe affrettarsi a rimediare alla sua colpa.
Comunque, dopo quella chiacchierata in macchina lunga quattro ore pensavo di aver capito che a Fabio piacessero le storie di genere, soprattutto il noir, soprattutto il poliziesco che io chiamo sporco e che, come dice Hammett, parla di gente che ammazza non per fornire un cadavere a dei lettori, ma per necessità. All’epoca credo che nessuno di noi due conoscesse ancora l’opera di James Ellroy, che per me è stata un’illuminazione e a questo punto, dopo aver letto Nero Istanbul, ho capito che lo è stato anche per Fabio.
Ma che cosa s’impara dai libri di Ellroy? È una domanda che si fa Franco Benvenuti, il protagonista del romanzo di Fabio. Già, che cosa s’impara da Ellroy? Che cosa ho imparato io, che scrivo serie televisive poliziesche e che cerco di farle sempre più dure e sincere possibile? Che cosa ha imparato Fabio?
Fabio secondo me ha imparato qualcosa di molto importante, qualcosa che va al di là delle belle scene d’azione e alla trama avvincente e ricca di colpi di scena. Tutte cose che potete trovare nel libro e che iscrivono di diritto Nero Istanbul in quel filone così ricco e interessante del nuovo romanzo nero italiano che annovera autori come Gianfranco De Cataldo, Giampaolo Simi, Maurizio Matrone, Piergiorgio Di Cara, Giampiero Rigosi, oltre ai capostipiti Carlo Lucarelli e Luigi Bernardi. Quello che Fabio ha imparato da Ellroy, quello che poi fa di Nero Istanbul un romanzo che va oltre il genere, o meglio, che lo caratterizza come un vero romanzo di genere, è il suo parlare d’altro. È il suo essere un romanzo di crisi.
Questo tocca di Nero Istanbul, non solo la bellezza della città che Fabio conosce bene, avendoci vissuto e lavorato per anni, non solo il senso del pericolo che incombe sul protagonista, non solo la discussione sulla composizione dell’umanità fra deficienti e cretini, che poi alla fine è un discorso sulla crisi dell’Occidente fatto alle porte dello stesso, Bisanzio, appunto, che come diceva Guccini è un sogno che si fa incompleto. Quello che tocca davvero in profondità in Nero Istanbul e mi restituisce il Fabio che conosco, l’amico profondo che non getta mai nel nulla una parola, è la crisi che vive il protagonista, una crisi che più del consumismo, più del turismo di massa, più dello scontro Oriente-Occidente preoccupa in maniera profonda tutti noi.
Il futuro.
È strano parlare di un romanzo a chi non l’ha letto, soprattutto di un romanzo costruito come una rivelazione continua ma mai fine a se stessa, al colpo di scena. Per questo non dirò nulla che non sia necessario per invogliare la lettura, e non so neanche se ci riuscirò. Ma quello che mi preme dire qui, stasera, è che chi avrà voglia di affrontare questo romanzo lo legga pensando a se stesso, a tutte le volte che si è fermato a pensare, come il protagonista, che nella propria vita manca qualcosa. Franco Benvenuti si fa sempre questa domanda, e a lui qualcosa manca, e manca da morire. È una strana mancanza, una mancanza che fa quasi tenerezza, in un mondo in cui si vive il qui e l’ora. Ma a Franco Benvenuti manca il domani, manca la fiducia, la speranza in qualcuno che viene dopo di noi e che ha qualcosa di noi, dentro. Qualcuno a cui possiamo raccontare quello che ci è successo nella vita, o quello che non ci è successo ma che avremmo desiderato che succedesse. Ecco, tutti noi abbiamo pensato una volta nella vita che qualcosa ci manca.
All’inizio della sua avventura, Franco pensa: “Bisogna avere coraggio per vincere, e anche saper dare fiducia agli altri. Franco si chiese se lui personalmente avesse quelle doti. Sperava di sì. Altrimenti doveva svilupparle molto presto, se voleva sopravvivere”. È con movimenti narrativi come questi che Fabio va oltre il genere, oltre le pistole, la droga e le donne fatali, oltre quegli ingredienti che devono esserci perché una storia prenda, sia forte e avvincente. È quella profondità, quella prospettiva, quell’aspettativa del futuro che tutti noi abbiamo ma che a volte manca in quello che leggiamo o in quello che vediamo al cinema o in tv – parlo delle fiction, ovviamente.
Libro non cinematografico, più ottocentesco che postmoderno.
Fabio ama la letteratura russa, ama Puškin. Che c’entra Puškin con Ellroy? Apparentemente nulla. Eppure la sensazione che il futuro ci venga a mancare sotto i piedi, sensazione che si prova leggendo Nero Istanbul, riporta sia all’uno che all’altro. E dimostra che il libro di Fabio ti lascia addosso un senso strano, piacevole e disturbante allo stesso tempo. Cosa si vuole di più da un romanzo?