Intervista all’autore

Conversazione di Fabio De Propris con se stesso (2002)

Intervistatore – Signor De Propris, vorrei farle alcune domande sul suo libro Se mi chiami Amore.

De Propris – Prego.

I – Come definirebbe la storia che ha raccontato? Una fantasia, uno scherzo o, come vorrebbe il suo personaggio Luciano, “la verità”?

DP – La verità.

I – Si tratta di un romanzo, però. Non può negare che è un prodotto della sua fantasia.

DP – Manzoni espresse una teoria letteraria in cui mi riconosco: ci sono certe verità che non hanno uno spessore documentario. Non esiste un documento che le provi non solo perché il Medioevo è lontano, ma perché certe verità, quelle del cuore, degli affetti profondi, non possono essere scovate in alcun archivio del Comune o dello Stato. Mi sono permesso perciò di scrivere un romanzo “vero” nei sentimenti. Inoltre ho approfittato dei buchi storici e biografici che riguardano Dante e soprattutto Beatrice. Anzi, Beatrice, storicamente parlando, è un puro nome. Qualunque dato biografico che le si attribuisce non ha un supporto documentario. Ciò mi ha concesso mano libera nell’invenzione letteraria. I dati che abbiamo a disposizione sui rapporti tra Dante e Beatrice sono un muricciolo pieno di buchi. Col mio romanzo riempio quei buchi ed è tutto materiale “vero” nel senso poetico del termine, composto cioè di sentimenti umani, non (solo) di dati storici.

I – Eppure il romanzo non è solo ambientato nella Firenze del Medioevo: c’è una buona metà che si svolge nei nostri giorni, corre parallela alla prima e la genera. Vuol dire che la verità è solo una ricostruzione, una falsificazione a posteriori? Lei insomma parla di una verità postmoderna?

DP – Di postmoderno nel romanzo c’è solo la disposizione a cercare linfa vitale in un passato che non è percepito come cristallizzato e museificato, l’idea che niente è stato detto una volta per tutte e che una nuova interpretazione è sempre possibile. Visto poi che non sto proponendo revisionismi e negazionismi, ma solo e soltanto una verità dei sentimenti, mi sentirei quasi di dire che il romanzo tende più al moderno che al postmoderno. Ogni storia è storia contemporanea, come pensava Benedetto Croce.

I – Vorrei insistere. Lei presenta “la verità su Dante e Beatrice” come una costruzione, un’invenzione di due personaggi del Duemila e non come un lavoro di scavo, di ricostruzione filologica o archeologica.

DP – Non volevo sottrarmi alla risposta: questo è il lato mistico del romanzo. Come fa il poeta a sapere cosa provasse nel suo intimo Napoleone sul letto di morte? Millanta? Mente? È uno sbruffone, un cialtrone? Secondo il buon senso bisogna rispondere di sì, che è un cialtrone, ma – aggiungo – un cialtrone divino. Nella sua finzione letteraria esce fuori da sé e comincia a sentire come i personaggi di cui scrive. Riportando il discorso a me, posso dire che la “verità” l’ho raccontata innanzitutto a me stesso. E’ un tipo di verità che possiamo definire “profonda”, è la carica emotiva che spinge gli uomini a fare ciò che fanno (o a non fare ciò che non fanno).

I – Quello che dice implica che c’è una “corrispondenza d’amorosi sensi” tra lei e Dante, o tra lei e Beatrice.

DP – Essendo uno scrittore, non posso negare che la mia autoconsiderazione tenda alla dismisura, ma è bene che questa frase l’abbia detta lei, perché sbandierare queste affinità è un po’ troppo anche per me.

I – Falsa modestia?

DP – Precauzione. Provo un certo fastidio per la tracotanza. Preferisco passare per un cialtrone più che per uno sciamano, un medium, Dante redivivo o cose del genere.

I – Eppure, scusi se mi ripeto, lei pretende di aver scritto la verità: sentirla ora indietreggiare cautamente mi sembra un po’ contraddittorio.

DP – Diciamo che apprezzo l’artista medievale che compie l’opera per la gloria di Dio e non per sé, l’artista che desidera rimanere anonimo. Questo è un elemento che nel mio romanzo ha un suo peso, tra l’altro.

I – Circa i nomi di Luciano Caldonazzo e Diana Arceri?

DP – Esattamente.

I – Nella parte contemporanea del romanzo lei insomma ha messo in scena se stesso, ha drammatizzato il processo della creazione artistica? Può anche non rispondere, tanto è ovvio che è così.

DP – Non rispondo, allora.

I – Vorrei tornare ancora sul problema della verità. Nell’alternarsi continuo delle vicende si ha l’impressione che una nasca dall’altra, cioè che il romanzo moderno “crei” quello di Dante e Beatrice e contemporaneamente il romanzo medievale “crei” la storia di Luciano e Diana. Dov’è dunque il fondamento della verità?

DP – La verità si fonda sulla responsabilità di chi la dice. Il fondamento è Luciano.

I – Che però si fonda sul nulla, o su molto poco.

DP – Si fonda su un’illuminazione. Ecco perché dicevo che è un romanzo mistico. Questo riflette le mie opinioni sulla verità in genere. Posso dimostrare scientificamente o razionalmente o logicamente il 99,9 % delle cose che scrivo, ma c’è uno 0,1 % che rimane fuori da ogni dimostrazione. Questo 0,1 % è la domanda: “Perché mi è venuta in mente questa idea?”. Su questo “venire in mente”, che è già in italiano un’espressione che indica qualcosa di involontario, si fonda tutto il resto. Puoi scrivere un romanzo dove all’interno tout se tient, ma come t’è venuta quest’idea, o perché t’è venuta non puoi capirlo. Traducendo la questione in termini romanzeschi, è Luciano che accende il fuoco, mentre Diana prepara gli ingredienti, gira il mestolo e cuoce tutto. Ma senza fuoco non si fa nulla.

I – Eppure io sono convinto che lei sa qualcosa circa il modo in cui le è “venuta in testa” l’idea del romanzo che non vuol dire.

DP – Niente che leggendo il romanzo non si possa capire.

I – Lei pretende che il lettore la prenda sul serio?

DP – Non pretendo nulla.

I – Ha in mente qualche idea per il prossimo romanzo?

DP – No, sono in attesa.

I – Di che?

DP – Di un’idea che mi venga in mente.

I – Simpatico, anche se un po’ troppo superbo, nel complesso. Potrebbe andare incontro a dei problemi, sa?

DP – Finisca la sua intervista e non mi faccia la paternale, per favore.

I – Certo, certo. Un’ultima domanda. Secondo lei Beatrice è veramente esistita?

DP – Ho scritto il romanzo proprio per dire che era una donna in carne e ossa, con una psicologia sua, un mondo suo. Certo che è esistita.

I – E Dante, secondo lei, l’amò veramente per tutta la vita?

DP – Ma sì, non c’è dubbio.

I – Infatti. Se mi chiami Amore dice la verità, lo ammetto, anche se non capisco come abbia fatto ad arrivarci. Pensa che il pubblico apprezzerà il suo romanzo?

DP – Spero.

I – Spera di avere successo.

DP – Una cosa media, diciamo. Be’, perché nasconderlo? Sì.

I – Nei suoi sogni più sfrenati lei vorrebbe diventare più famoso di Dante, vero?

DP – Lei è uno strano intervistatore, sa?

I – Sarebbe disposto a vendere l’anima per il successo?

DP – Ma lei chi è, scusi?

I – Domanda ingenua. Sono il suo Intervistatore.

DP – L’intervista finisce qui.

I – Vuole farcela da solo, eh?

DP – Certamente.

I – Superbo.